Sentiero attrezzato Gustavo Vidi

Dal passo del Grostè, verso Nord, si alza una catena minore delle Dolomiti del Brenta, formata dai monti Pietra Grande e Cima Vagliana, bastioni enormi che si alzano verticali sopra imponenti ghiaioni.

Nonostante la vicinanza agli impianti sono montagne meno frequentate delle dirimpettaie Cime Brenta, Tosa, Mandron e degli svariati campanili; alcuni sentieri, quello delle Palette, il Costanzi e quello che abbiamo percorso oggi, il Vidi hanno nulla o poco da invidiare alle più famose Bocchette. Al contrario di queste, percorrono angoli più isolati e meno battuti, dove difficilmente si fa fila per salire.

24 Agosto, seconda giornata in terra dolomitica, inevitabilmente è piena di aspettative; ieri ci siamo limitati ad una escursione “soft” per via del meteo capriccioso e foriero di pioggia, rivelatasi poi meno “soft” del previsto e anche molto ricca di fascino; oggi avevamo qualche speranza in più, alla mattinata più o meno tranquilla sarebbe seguito un pomeriggio con variabilità spiccata, ma dal momento che era praticamente impossibile cercare affidabilità nelle previsioni meteo, lanciare una monetina in aria sarebbe stato più attendibile, abbiamo deciso comunque di osare il sentiero Gustavo Vidi, teoricamente e all’apparenza un sentiero attrezzato breve e facile ma che è finito per essere, col proverbiale senno del dopo, una scelta un po’ azzardata; in caso di pioggia le forti esposizioni ed i tratti non protetti avrebbero potuto riservare qualche problemino non da poco. L’ambiente è quello della Montagna Grande, Dolomiti del Brenta, la lunga parete che si alza sopra imponenti ghiaioni alla sinistra del Grostè. Anche per oggi avevamo il piano A e quello B che avremmo scelto a seconda dello sviluppo del meteo; in comune la partenza, attraverso gli impianti del Grostè si sale fino al rifugio Stoppani, si raggiungere la vicina sella del Grostè e col sentiero attrezzato 390 si sale e si traversa il versante Sud-Ovest della Pietra Grande. Alla fine del 390, nel caso di tempo incerto avremmo preso a sinistra il sentiero 336 che attraversa, poi scopriremo “sorvola”, i piani degli Orti della Regina fino ad atterrare al rifugio Graffer; nella ipotetica meravigliosa quanto improbabile ipotesi che il meteo desse l’impressione di garantire stabilità avremmo continuato ad aggirare Pietra Grande e Cima Vagliana, sempre col sentiero 336 ma verso destra una volta al bivio, per salire dentro val delle Glare, attraversare la bocchetta dei Te Sassi e rientrare poi allo Stoppani con il tratto non attrezzato del sentiero 306, anche detto sentiero delle Palette, che traversa il versante Nord della Pietra Grande, l’altopiano ghiaioso, roccioso misto prati che prende il nome di Castron di Flavona. Raggiungiamo come da programma e comodamente in telecabina il rifugio Stoppani, la giornata è chiara, le nuvole manco a dirlo non mancano ma sono chiare, frastagliate e alte, godersi le Dolomiti del Brenta dalla cabina mentre si sale è uno spettacolo. Dal rifugio il valico del passo del Grostè è a 10 minuti, la base della irta dorsale di Pietra Grande che scende graduale atterra graduale sul passo, poco avanti una palina segnala le direzioni per il sentiero delle Palette (306) e quello per il sentiero attrezzato Gustavo Vidi (390); per un tratto i due sentieri avanzano quasi paralleli poi si discostano ed il Vidi prende a salire ripido, sempre più ripido, tropo ripido, anche bruttino, scomposto e sdrucciolevole. Molti i tornanti stretti dove il breccino scivola via sotto i piedi, ci sorprende questa partenza così affannosa e la verticalità accentuata del sentiero, intuiamo il punto dove raggiungerà la cengia sotto il costone verticale sopra e davanti a noi, non rimaneva che rassegnarsi e rallentare il passo. In 30 minuti raggiungiamo la parete e la cengia che ci scorre sotto dove una targa sancisce l’inizio del sentiero attrezzato Gustavo Vidi. La parte attrezzata del sentiero inizierà molto più in alto, per ora la cengia è relativamente ampia, non assicurata e non ci curiamo dell’esposizione qualche metro più in là; Marina che è davanti, raggiunge subito uno spigolo dove il sentiero sparisce e lascia intuire una apertura di orizzonti totale, bellissimo contrasto. Girato lo spigolo il sentiero continua sottile su una cengia non esposta, il versante degrada ripido ma non si sente il salto. Meravigliosa la prospettiva sulle imponenti pareti Nord di Pietra Grande che terminano sui possenti ghiaioni che degradano fino al verde dell’ampia valle che a sua volta scende lenta fino a quella principale di Tovel; sotto quelle pareti scorre il sentiero delle Palette, credo uno dei versanti delle Dolomiti del Brenta meno frequentati, quasi da farci un pensierino. Aggirando il costone il sentiero lentamente prende a salire, il versante è meno ripido ma più scomposto, grosso pietrame lascia poco spazio al sentiero, solo qualche tratto è agile, ripiegando verso Est continua a salire fino a congiungersi con la piatta dorsale che ci scorre sopra e che anticipa i costoni di Pietra Grande; qualche salto arrampicabile dove servono le mani, gli ultimi tornanti e raggiungiamo la dorsale che come detto è piatta ma non poi così ampia. Improvvisamente gli orizzonti tornano vastissimi, danno sulle Dolomiti brentane, sul rifugio Viviani verticale sotto di noi, sulla boscosa alta val Rendena e oltre la valle sul grande massiccio dell’Adamello, con evidentissima la piramide rocciosa della Presanella; porca miseria che spettacolo, che vuoto pochi passi più in là, come è bello essere quassù, entusiasmante, per gli occhi, per il cuore. Continuando in cresta la dorsale rimane per un po’piatta, ora più larga ora più stretta, qualche centinaio di metri più avanti si alza repentinamente su uno spigolo dove vediamo delle persone piccole piccole che arrampicano e che ci precedono, oltre ancora le massicce cime del cuore del gruppo, ci domandiamo quale sarà la linea di salita del sentiero ma oltre lo spigolo lì davanti non riusciamo nemmeno ad intuirlo, non rimaneva che incamminarci. Per un breve tratto la cresta si assottiglia a non più di un metro di larghezza, un cavo che scorre come un mancorrente sospeso permette di darsi sicurezza e superare agevolmente il vuoto che scorre a pochi centimetri, si prende a salire su grandi pietre quasi fossero degli scaloni fino a raggiungere la base dello spigolo dove inizia la vera ferrata, riponiamo i bastoncini nello zaino e prendiamo ad assicurarci; facile la salita, suggestivo il passaggio e lo scorcio oltre una strettura che non lascia intuire nulla se non lontane pareti verticali, un po’ di problemi a far passare lo zaino tanto è stretta, il salto a destra dopo averla superata è forte ma siamo assicurati ad un cavo ben teso. Inizio divertente. Per un po’ su è giù sulla dorsale fin quando il sentiero prende ad aggirarla sulla sinistra, verso il versante che aggetta sul Grostè, quasi subito il sentiero torna ad essere piatto, scorre più o meno in piano su quello che sembra essere diventato un ghiaione, su quella che ben presto capiamo diventare una lunghissima ampia cengia, uno di quegli enormi cornicioni ghiaiosi che scorrono appena sopra gli imponenti salti rocciosi soliti di queste montagne. Sarà questo il tratto di tutta l’escursione dove servirà fare maggiore attenzione, tutto facile e senza difficoltà ma è vietato distrarsi o mettere un piede in fallo, c’è poco spazio per riprendersi da una eventuale scivolata. Salendo con l’impianto avevamo visto quelle pareti aggettanti, con i ghiaioni detritici alla base duecento metri più in basso e le coste sempre detritiche che gli scorrevano sopra fino alle creste sommitali; scorrevamo a pochi metri dal bordo, ora un po’ più in là ora meno, la sensazione era sempre quella di avere accanto un trampolino breccioso che dava sul vuoto. Il sentiero continuava a scorrere lineare quasi in piano ma non eravamo abituati a quel senso di equilibrismo affatto protetto, era un sentiero banale, sicuro, eppure ci costringeva a tenere i sensi sospesi, allertati; affascinante e nello stesso tempo ansiogeno, era solo una questione di abitudine che non avevamo a quel tipo di esposizione, c’è voluto un po’ per prendere familiarità ed alla fine, forse solo per non sentirci stupidi ce l’abbiamo fatta. Lunghissimo il tratto prima di incontrare tratti attrezzati o semplicemente rocce dove aggrapparsi, per buoni venti minuti camminiamo sospesi su questo cengione, poi iniziano ad arrivare le rocce, gli spigoli più sporgenti ed esposti ma assicurati, poi scale che salgono, altre cengie rocciose più strette ma sempre protette ed altre scale che scendono; la parte centrale del sentiero scorre sulla parete di Pietra Grande, siamo nel cuore della montagna, qualche passaggio un po’ più tecnico ma sempre semplice come da copione dolomitico, dal momento però che quasi sempre ci sentiamo protetti dalle assicurazioni ci divertiamo come pazzi; su e giù a passare canali e spigoli che scendono dall’alto, ora assicurati ora no, su scale, qualcuna un po’ più lunga ma sempre appoggiate, qualche esposizione e molte cengie sottili, per una quarantina di minuti l’ambiente è questo, severo ma divertente, terribilmente divertente; su uno spigolo, su un tratto di cengia più ampio, sotto una sporgenza aggettante una panchina sui cui è scolpito il nome di uno dei fratelli Vidi, Natale, l’invito è alla sosta, ed il panorama è strepitoso. Termina qui il tratto attrezzato, il sentiero riprende a scorrere su un cengione enorme simile al primo tratto, ed è già visibile la fine del sentiero, dove termina la roccia e riprende il verde dei prati, proprio sopra il pulpito che domina i così detti Orti della Regina. A parte un breve tratto che scorre sul limite della cengia il sentiero scivola via tra leggeri sali e scendi ma più agevole e più tranquillo rispetto al primo, forse ci siamo semplicemente abituati ma sentiamo meno l’oppressione dell’ambiente e del vuoto sottostante; impressionante invece, se ci si volta indietro, la visuale quasi intera di tutto il tracciato, della lunga cengia e del filo della traccia che gli scorre praticamente sul limite. Mentre ci trovavamo su questo tratto di rientro scorgo davanti, in basso nel fianco dello sperone che aggetta sugli Orti della Regina, una sottilissima traccia, la indico a Marina chiedendogli se gli andava di percorrere quel sentierino da capre; ci ridiamo sopra, ci prendiamo in giro anche, chiaramente la risposta era negativa quasi atterrita, io non ero da meno. Ci domandavamo chi avesse potuto costruire quella traccia, avete presente quelle pareti calcaree stratificate, con pochi cambi di pendenze e verticali? Su uno di questi cambi di pendenza, su un lembo che non poteva essere chiamata cengia ci scorreva una sottilissima traccia. Indovinate un po’ dove passava il sentiero di rientro? Nel frattempo siamo arrivati alla fine del sentiero Vidi, una palina sancisce l’incrocio col sentiero 306; a sinistra avremmo preso per il rifugio Graffer mentre a destra avremmo continuato ancora a lungo per quella che avevamo chiamato opzione B verso la bocchetta dei Tre Sassi ed il rientro allo Stoppani col sentiero delle Palette. Il cielo che si era andato chiudendo e l’incedere di nubi sempre più scure tra le guglie delle prospicenti Dolomiti brentane non promettevano niente di buono, avevamo già osato con questo tratto aereo e ci potevamo accontentare per cui alla palina abbiamo preso a sinistra, il Graffer ci attendeva per una meritata mangiata. Il sentiero, ora tra pratoni, scorreva il leggera discesa, il versante scendeva più ripido verso la valle principale e verso campo Carlo Magno, ancora più ripido scendeva verso la valle del Grostè, sempre più ripido via via che si aggirava lo sperone, sempre più accidentato e ripido fino a sparire una volta terminato l’aggiramento, rimaneva pura verticalità, quasi vuoto; forse entrambi stavamo riflettendo in silenzio tanto che quasi contemporaneamente ci siamo guardati ed abbiamo capito che la direzione che si stava prendendo fosse esattamente quella che finiva sul quel sentiero da capre che volevamo evitare a tutti i costi. La traccia rimaneva agevole ma la direzione ad ogni passo veniva confermata, non poteva che essere lei quando aggirando completamente lo sperone ritorniamo ad avere davanti tutto il lungo cengione che avevamo percorso la mattina. Non avevamo scelta, la traccia era stretta ma agevole, in piano, a sinistra la parete scomposta ci sovrastava verticale, a destra scendeva scoscesa per un brevissimo tratto poi nulla, c’erano solo i pratoni di fondo valle, bastava non pensare cosa ci fosse oltre quei pochi metri scoscesi di sassi che avevamo lì vicino, non fosse che avevamo visto il profilo di questo sentiero da lontano e che c’avessimo pure costruito un film sopra, non ci saremmo quasi accorti di nulla. Volevamo evitarlo ed è filato tutto liscio, è durato pochi minuti, una manciata, forse una decina, ho trovato modo di fare anche delle foto; come è strana la montagna, l’esperienza insegna ma la cultura attecchisce lentamente, è proprio vero, mai giudicare da lontano. Ci rendiamo conto che siamo fuori da quel tratto esposto quando il ghiaione si avvicina ed uno stretto tornante virando ci precipita praticamente a fianco; svariati tornanti si susseguono ripidi e sdrucciolevoli, ormai eravamo tornati nella zona di confort. Una bella esperienza, spero ci insegni qualcosa per il futuro. Sui ghiaioni traversiamo veloci, superiamo alcune corone di roccia, in qualche passaggio servono le mani, traversi e di nuovo salti di livello su qualche fascia rocciosa fino ad intercettare una botticella per la presa d’acqua, l’ultimo deciso salto di una ulteriore corona rocciosa e rimaneva l’ultimo lungo traverso fino al rifugio Graffer dove appaghiamo gli istinti primari con i familiari sapori alpini, birra e patatine fritte non possono mancare, almeno per oggi, poi arriverà altro. Dietro la finestra che avevamo alle spalle si andavano nel frattempo scurendo gli orizzonti, è stata inghiottita Cima Brenta e tutte le altre vette, poi anche dal vicino passo Grostè è sceso veloce un muro grigio che tutto ha inghiottito, pochi minuti e si è scatenato un acquazzone violento, proprio nel momento che volevamo prendere la via del rientro. Dopo una mezz’oretta di pacata attesa, approfittando di un momento di tregua, bardandoci di nuovo con gusci e copri zaini e sotto una debole pioggia ci siamo incamminati verso la stazione di mezzo degli impianti del Grostè che raggiungiamo in una ventina di minuti. Pietra Grande era ancora inghiottita dalle nuvole e non faceva più parte dell’orizzonte, soddisfatti per la scelta che avevamo fatto poco più di un’ora prima ci gustiamo la discesa in cabina, soli, col solo traballamento durante il passaggio dei piloni a distrarci dall’ovattata atmosfera.